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Foiba rossa. È questa l'immagine della violenza alle donne che si vuole dare a scuola?

La recente decisione della Regione Piemonte di unirsi all'iniziative degli amministratori del Veneto nella promozione del graphic novel Foiba rossa nelle scuole ha già sollevato, e a ragione, numerose polemiche. Il testo a fumetti, edito da Ferrogallico nel 2018 e firmato da Beniamino Delvecchio ed Emanuele Merlino, abbozza infatti una rappresentazione dei controversi eventi dell'occupazione jugoslava dell'Istria, avvenuta a ridosso della seconda guerra mondiale. L'espediente utilizzato per tracciare un sedicente quadro storico che ben si sposi al discorso - spesso ideologicamente connotato - sulla giornata del Ricordo e sulle foibe è il riferimento alle vicende che hanno visto come protagonista la giovane Norma Cossetto, studentessa istriana e figlia del dirigente fascista Giuseppe Cossetto, il cui cadavere fu rinvenuto in una foiba nel 1943.


Molto è già stato scritto sulle inesattezze storiche che caratterizzano il testo e sulla chiara matrice neofascista dell'operazione editoriale che ha dato vita a Foiba rossa. L'obiettivo di questo contributo è quello di capire, per mezzo di una breve analisi delle dinamiche rappresentative proposte nel fumetto, quale immagine della violenza contro le donne studentesse e studenti si troveranno di fronte una volta che il libro arriverà sui loro banchi di scuola. Tale operazione si dimostra necessaria a fronte del largo spazio che il lavoro di Delvecchio e Merlino concede alla descrizione della presunta violenza sessuale subita da Norma Cossetto prima di essere infoibata ad opera di alcuni membri delle milizie titine . Fin dall'introduzione redatta da Ronzo Codarin, inoltre, il testo dimostra un esplicito interesse a trattare la storia della donna come "la storia di un femminicidio", proponendo quindi un chiaro rimando al tristemente popolare termine femminista introdotto per isolare concettualmente il fenomeno della violenza letale di genere.


Conviene innanzitutto chiarire la dubbia appropriatezza del termine femminicidio - usato per descrivere l'assassinio di una donna per motivi di genere e non l'assassinio di una donna tout court - in riferimento al caso Cossetto. Precedenti ricerche hanno infatti appurato come gli eventi che hanno portato all'uccisione della donna - ivi compresa la violenza sessuale - non siano mai stati confermati e non possano più esserlo, data la distanza temporale e l'intricata rete di dicerie su cui si è costruita la corrente vulgata. L'impossibilità di garantire la veridicità storica del movente di genere e di dimostrare la violenza sessuale rende quindi problematico l'impiego del termine femminicidio e getta luce sulla natura del procedimento narrativo che caratterizza l'opera, il quale consiste nel presentare come fatti verificati eventi che, in alcuni casi, risultano essere solamente supposti. Considerato l'ampio spazio che altrove è stato dedicato a questa tecnica compositiva e alle criticità che la stessa comporta da un punto di vista etico, ci si limiterà ad aggiungere che è proprio la narrazione per immagini del fumetto a supportare la presunta oggettività del racconto. Nonostante le numerose potenzialità che il medium garantisce in termini di rappresentazione complessa (possibilità sicuramente non sondate in Foiba rossa), la storia a fumetti può, di fatto, fare a meno di una voce narrante e, conseguentemente, si relaziona agli eventi partendo da un'immaginaria posizione di obiettività o di distacco (Hatfield 2005; Barbieri 2017). Va poi aggiunto il fatto che la narrazione apparentemente oggettiva di fatti non verificabili risulta particolarmente problematica nel caso di rappresentazioni incentrate sulla figura di una donna e interessate alla questione di genere. Non sono le mistificazioni sulla vicenda di vita di Norma Cossetto e la sua strumentalizzazione parte di quella tendenza, diffusa nella cultura patriarcale italiana e non solo, a silenziare e a oggettificare il femminile? A questo proposito, un'analisi dettagliata del testo incentrata sul trattamento riservato al personaggio della donna non può che confermare la matrice sessista dell'operazione editoriale Foiba rossa.


In una delle note introduttive che aprono il romanzo grafico, quella firmata da uno degli autori, Emanuele Merlini, la protagonista Norma Cossetto viene presentata come donna in grado di impersonare le doti fondamentali dell'innocenza e dell'esemplarità, così da poter essere eretta a modello vittimario. Da una parte si ribadisce l'estraneità di Norma alle vicende politiche che avrebbero concorso alla sua morte e si insiste sul suo candore (caratteristica tipicamente muliebre, direbbero alcuni), in un procedimento retorico teso a confermare l'associazione tra le idee di vittima e di femminilità. Poco oltre, la donna è presentata invece come studentessa e insegnante interessata a perseguire la propria autonomia. L'intento di controbilanciare l'immagine di Norma come soggetto debole appare chiaro, a testimonianza del tentativo di ricoprire con una patina di politically correct che faccia l'occhiolino al discorso ormai mainstream sull'indipendenza femminile l'operazione di iconizzazione della donna.


L'attacco del fumetto tradisce lo stesso approccio politically correct, il quale si trasla addirittura nella scelta di adottare uno schema rappresentativo in voga tra le narrazioni femministe contro il femminicidio: quello dell'affidamento di dignità letteraria alla donna uccisa. Gli autori propongono infatti la scena fittizia della discussione della tesi di laurea di Norma Cossetto presso l'Università di Padova, scena a cui la donna prende parte nonostante la morte avvenuta precedentemente. Tale tecnica mira a riassegnare voce e agentività al soggetto vittimizzato e a contrastare sul piano del racconto l'oggettificazione a cui il femminile viene sottoposto nella realtà.

Eppure, nonostante l'assenza di criticità che caratterizza la cornice con cui Foiba rossa è imbellettato, il resto del fumetto non manca di fare pericolosamente appello al regime simbolico patriarcale che fomenta la violenza stessa.


Dopo una lunga parentesi nella quale viene introdotta la questione istriana (dalla dominazione asburgica, passando per il terremoto della Marsica fino agli eventi dell'annessione fascista di Fiume) la storia di Norma Cossetto entra nel vivo con una narrazione che segue il filo cronologico degli eventi a partire dalla sua nascita e dalla decisione dei genitori, entrambi istriani di lingua italiana, di battezzarla assegnandole il nome dell'opera belliniana. L'assegnazione del nome avviene parallelamente all'associazione, suggerita dal padre, tra Norma e una giovane pianta che la bambina avrà il compito di curare e far crescere. Facile simbolo dell'attaccamento alla terra e alla "patria" istriano-italiana, la pianta riemergerà nella narrazione di Foiba rossa a costellare il percorso esistenziale di Norma: comparirà rigogliosa in occasione dei ritorni a casa negli anni trascorsi dalla ragazza come studentessa fuori sede, si spezzerà improvvisamente in occasione del suo stupro.


Il binomio donna - terra che l'accostamento tra Norma e la pianta supporta risulta altamente problematico se si pensa a come, nella produzione culturale e scientifica occidentale, l'associazione tra natura e femminilità sia stata funzionale alla simbolizzazione della donna come 'altro' rispetto al concetto di civiltà, tradizionalmente incarnato dal maschile, e a come la stessa associazione abbia contribuito a relegare il femminile nella sfera dell'istintuale, dell'irrazionale, dell'occulto (Woman and Nature di Susan Griffin è solo uno dei capisaldi del femminismo su questo tema). La problematicità del nesso persiste anche nel caso si associno alla terra caratteristiche positive, le quali generalmente coincidono con la capacità di curare e di nutrire, entrambe qualità che riconducono al lavoro di cura e riproduttivo affidato alla donna dalla società patriarcale. Non stupirà quindi la scelta degli autori di Foiba rossa di disegnare Norma bambina con le fattezze di una donna adulta che, mentre gioca con la sorella, contempla felicemente il matrimonio in abito bianco come suo destino.


La scena della presunta violenza sessuale subita da Norma, con cui il testo raggiunge l'apice della tensione narrativa e si avvia verso la conclusione, merita poi una riflessione a parte, la quale tuttavia non può che intersecarsi con le considerazioni fatte finora sulla rappresentazione di genere proposta nell'opera. Dopo essere stata rapita da membri delle milizie titine in una rappresaglia mirata a rintracciare il padre, la protagonista viene disegnata inchiodata ad un tavolo e semi-spogliata, in vista dell'imminente stupro. Una pagina nera con la scritta "Oggi ci prendiamo tutto quello che vogliamo perché, da oggi, tutto quello che è vostro diventa nostro" e una bandiera tricolore riversa a terra segue la vignetta appena descritta e ne anticipa una terza in cui Norma è raffigurata priva di sensi, con seni e gambe scoperti e insanguinati. Sottolineare come l'iconografia utilizzata in quest'ultimo panel sia esattamente conforme a quella che attiviste/i e studiose/i impegnate a sensibilizzare sulla corretta rappresentazione della violenza alle donne scongiurano (perché, banalmente, (ri)oggettifica la vittima riproducendo le dinamiche dello sguardo maschile che qualifica la donna come oggetto sessuale) dovrebbe essere operazione ridondante. Ciò che preme mettere in luce è, piuttosto, l'ennesima riproposizione dell'associazione tra donna (vittimizzata) e terra (invasa). La frase sopra riportata, chiaramente affibbiata ai miliziani comunisti, instaura infatti un parallelo implicito tra lo stupro - assassinio di Norma Cossetto e l'occupazione jugoslava dell'Istria. Ecco quindi che l'atto di "prendere" la terra d'Istria coincide, con il "prendere" (non a caso, verbo spesso usato per descrivere eufemisticamente l'atto dello stupro) la donna. Ecco quindi che la contrapposizione retorica tra il "nostro" (degli jugoslavi) e il "vostro" (degli italiani) non fa altro che avallare il riconoscimento della donna-terra come bottino, come oggetto di contesa. Ecco quindi che la donna, solo apparentemente protagonista, indipendente e simbolo della lotta alla prepotenza di genere, viene di fatto spogliato di ogni dignità e autonomia.


È davvero questa l'immagine della violenza alle donne che si vuole dare a scuola nell'Italia del 2020?





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