Ida Cordaro (Cornaredo 1997) è tra le più promettenti matite della scena fumettistica bolognese. La sua opera d’esordio, Lara (Canicola 2019), racconta per parole e immagini una storia di violenza domestica da cui trapela la preziosa capacità dell’autrice di usare il disegno per denunciare l’ottusità degli stereotipi, anche quelli più comunemente usati per parlare di violenza di genere da una prospettiva critica.
Ida ed io abbiamo fatto due chiacchiere su genere, violenza, femminismo e fumetto. Eccole.
N.M. Lara, la tua opera prima dedicata alla questione della violenza relazionale subita per parte femminile, è stata recentemente pubblicata da Canicola all’interno del progetto “Dalla parte delle bambine”. Elena Gianini Belotti, autrice del saggio da cui il progetto trae il suo nome, rifletteva sulla ribellione, considerata spinta imprescindibile per il cambiamento, domandandosi: “E dove mai le donne, impoverite programmaticamente di coraggio proprio dall’educazione che viene loro impartita, potrebbero trovarne per opporsi ai pregiudizi che le riguardano? Il loro senso di inferiorità, d’insicurezza, la convinzione che è giusto che siano loro a pagare il prezzo più alto perché in cambio ottengono considerazione e rassicurazione, ne fanno delle conservatrici timorose di cambiamenti, anche quando tornino, a lungo termine, a loro vantaggio.” (1999: 14), Molto è cambiato dagli anni Settanta, quando il testo di Gianini Belotti fu pubblicato, e numerosi sono gli esempi di ribellione femminile che possiamo elencare se gettiamo un occhio al passato recente. Eppure questa riflessione conserva una discreta dose di attualità riscontrabile, per fare solo un esempio, nell’attitudine conservatrice che molte donne mantengono nella sfera relazionale per far fronte ai pregiudizi che ancora le ingabbiano. Qual è il lavoro che hai cercato di fare con il tuo testo e in che modo credi che il tuo graphic novel possa contribuire a contrastare questa lunga tendenza?
I.C. Educazione e ribellione. Sento la necessità di iniziare evidenziando dalle frasi citate della Belotti queste due parole che credo si possano elevare a istanze cardine del discorso, cui mi sento di affiancare una premessa, forse scontata: viviamo, ancora, di fatto, in un sistema eteropatriarcale che, come tutti i sistemi gerarchici, per mantenersi costante deve necessariamente avere sempre qualcuno “sopra” e qualcuno “sotto”. Il sistema stesso deve perciò operare divisioni ben precise per creare “categorie” altrettanto precise e inviolabili per istituire i suoi propri rapporti di potere (razza bianca/non bianca, uomo/donna, eterosessuale/omosessuale, borghesia/proletariato, umano/animale e avanti) e deve adoperarsi, attraverso i dispositivi che istituisce, a mantenere l’ ordine gerarchico e quindi le categorie che, lungi dell’essere un fatto naturale e inevitabile, sono quindi, a tutti gli effetti, costruzioni arbitrarie e quindi sociali. Qui entra in gioco a pieno l’istituzione educativa che è (è stata ed è in larga parte ancora) la grande industria politica di normalizzazione “programmatica” di cui parla Belotti. Le categorie prodotte dalla divisione binaria dell’umanità sulle basi delle evidenze anatomiche, da fatto fisico diventano categorie di pensiero che il sistema educativo è incaricato di perpetuare attraverso processi di radicamento di quella che Beatriz Preciado chiama, riferendosi ai generi maschile e femminile nell’infanzia, “l’utopia educativa”. Il sistema educativo è solo uno dei molti dispositivi tecnopolitici finalizzati a naturalizzare l’ordinamento stesso, ovvero ad innescare il processo che porta ad interiorizzare dei costrutti sociali fino a percepirli come naturali e, perciò, inevitabili. Questo diventa il nodo del discorso: quando si percepisce una categoria di pensiero come naturale ed inevitabile non la si può combattere. Educazione e ribellione stanno l’una all’altra in un rapporto liquido nel mezzo del quale sta il processo di presa di coscienza. Processo da considerarsi tutt’altro che scontato, che al contrario necessita sempre di un punto d’ innesco, che faccia irrompere nella consapevolezza “l’arbitrarietà della norma”. Di certo molto è stato fatto, ma il meccanismo ruota ancora in funzione dello stesso sistema di potere. La percezione è che ci siano ancora troppi spazi isolati, in senso fisico, geografico e/o culturale in cui viene meno il contatto con narrazioni differenti o con modelli di comportamento “dissidenti” rispetto a ciò che si pensa “naturale” e “normale”. Contesti marginalizzati anche dalle istituzioni ufficiali, che vivono un isolamento anche politico. Esempio tra tanti, le donne coinvolte nei flussi migratori vecchi e nuovi che sono impiegate nel lavoro di cura, in contesti fortemente discriminanti che le vedono costrette ad accettare le regole coercitive di un sistema in cui sono invisibili. “Ingabbiate” lo siamo una volta in più, fintantoché troppo spesso, dopo il processo che culmina con la “ribellione”, ci si scontra con un “vuoto” sistematico (delle istituzioni, della cultura, degli affetti), che si colma di stigma, che è anche lo stigma della vittimizzazione, che mai rende giustizia alla legittimità della ribellione, ma la sminuisce e la ricopre di veli di pietà, di buonismo, o di assistenzialismo. Questo a confermare l’assetto culturale binario radicalmente naturalizzato nel sentire comune, che nel discorso istituzionale millanta “parità” raggiunta, ma che di fatto si nasconde ipocritamente dietro le sue strategie impregnate di paternalismo, mettendo in atto un’altra volta ancora e perpetuando sottilmente, e per questo in modo ancora più pervasivo, gli stessi rapporti di potere, senza mai davvero metterli in discussione. Qualunque lotta è un fatto di autocoscienza individuale che, condivisa, diventa presa di coscienza collettiva. Questo processo è un percorso di riedificazione di una forma mentis inedita, in opposizione a quella naturalizzata nell’inconscio collettivo. Non deve e non può perciò essere solo delle donne la presa di coscienza, ma responsabilità di tutti gli individui della collettività nella sua interezza: solo la diserzione di un numero sufficiente di soggetti dal “pensiero normato” può renderlo inaffidabile e vulnerabile al punto da ribaltane gli effetti reali sulla vita di tutt*, ma per questo è necessario sensibilizzare anche le soggettività che non hanno mai posto l’attenzione sui privilegi di cui godono, conseguentemente al loro genere, all’orientamento sessuale, al colore della pelle. Precisamente per questo motivo l’infanzia è il luogo, lo spazio psichico della verginità culturale, su cui credo si debba ripartire per insufflare nuove possibilità di esistenza.
Il mio albo non è nato con uno scopo aprioristico, nel senso che non c’è stata intenzionalità nel costruire una storia di un certo tipo piuttosto che d’un altro. Prima della sua genesi effettiva non c’era una precisa “volontà conscia” di edificare una narrazione su questo tema, per questo nessuna pretesa di dire o di veicolare riflessioni, che però a posteriori nascono da qualunque cosa. Credo che la cosa più auspicabile di ogni lavoro, la finalità ultima di tutte le narrazioni, sia quella di poter aprire delle riflessioni e portare delle domande laddove ci siano terreni pronti a lasciarsi aperti alla suggestione. Già sarebbe molto se la lettura lasciasse ad ognuno, con il suo proprio vissuto personale differente, lo spazio necessario alle domande di risuonare. Domande che sono anche le mie e a cui non so rispondere. Credo che siano le uniche chiavi per spingersi un poco oltre quello che si vede, o si sa, o che si è creduto di sapere, o che si è creduto di credere, fino a che qualcuno ci ha dato un gancio per cambiare il punto d’osservazione. Domande che hanno una loro propria funzione autosufficiente, anche se non si sa rispondervi.
N.M. Il femminismo in Italia (e, più in generale, nel mondo) è recentemente tornato alla ribalta con manifestazioni e movimenti di massa, tanto che c’è chi parla di una seconda età dell’oro, dopo quella degli anni Settanta. Qual è il tuo rapporto di donna e di autrice nei confronti della teoria e della pratica femministe?
I.C. Il mio incontro con i “movimenti” è stato un impatto, che ha coinciso, nel mio caso con l’incontro con la Città. Sono cresciuta in un contesto provinciale, cattolico: lo scontro frontale è stato folgorante, come credo avvenga per tutte quelle soggettività che vivono fuori da contesti, anche familiari, già fortemente immersi nelle pratiche dell’attivismo politico. La sensazione è stata per me quella propria della dilatazione e dell’immersione. Non so dare una misurazione precisa di quanto la mia appartenenza anatomica alla “categoria donna” abbia giocato nel processo di empatia diretta con il movimento, posso dire con certezza che ha avuto un peso, ma in fin dei conti non sono del tutto convinta che sia una quantificazione fondamentale ed esaustiva di questa scelta politica. Più centrale è stato l’insorgere di una serie di problematizzazioni rispetto alla mia “identità” normata. Il movimento femminista, (preferisco in realtà, parlare di movimento Transfemminista Queer LGBTQ+I) è stato quello che, in termini di riflessione politica e individuale mi ha dato più strumenti, e che per questo, ha messo in moto un meccanismo di riconoscimento istintivo nelle sue lotte, che non hanno subito connotato con i loro contenuti il mio approccio alla produzione artistica, ma che di certo hanno lavorato per portarla in questa direzione.
Credo che i “nuovi femminismi” si stiano caricando di una sfida ulteriore, molto più radicale: Il femminismo storico è stato determinante, ha lasciato eredità imprescindibili e battaglie che tutt’ora mantengono il loro peso specifico (l’aborto per esempio, che rimane un percorso ad ostacoli). Su queste lotte, si sono poi innestate le nuove teorie queer, gli studi sul “genere” le lotte per la depatologizzazione di omosessuali e transessuali (si pensi che il primo femminismo era lesbofobo, e che ancora è talvolta trans-escludente), le produzioni teoriche dei movimenti “dissidenti”, che hanno fatto sì che le lotte delle donne si verticalizzassero e diventassero le lotte di tutti quei corpi discriminati dal sistema eteronormato. E proprio ripartendo dal corpo, costruisce produzioni discorsive e saperi che si interrogano sul legame tra sessualità, sesso biologico, orientamento di genere e rapporti di potere, che si pongono in un’ottica di riedificazione strutturale dei rapporti, non configurata sulla divisione binaria dei generi. Per capire la portata e la potenza rivoluzionaria di questo aspetto bisogna comprendere i legami consequenziali che annodano l’ordinamento binario con altre macrostrutture: divisone binaria è pietra angolare della famiglia tradizionale, a sua volta pietra angolare del patriarcato, che è il perno cardine del capitalismo. Così si può comprendere come il movimento Transfemminista sia legato intimamente con la lotta anticapitalista, anticolonialista, antirazzista e ambientalista. Tutto questo implica una riorganizzazione a tutto tondo dei modi dell’esistenza.
N.M. Negli ultimi anni sono state molte le giovani fumettiste interessate a trattare questioni di genere salite agli onori delle cronache nazionali, penso a Zuzu, Fumettibrutti, Cristina Portolano, Alice Milani, Silvia Rocchi, per citarne solamene alcune. Tanto che almeno un paio di antologie, Post Pink (Feltrinelli Comics, 2019) e Materia Degenere (Diabolo 2019), sono state dedicate al lavoro di donne. Quali sono, in base alla tua esperienza, i rapporti di genere attivi nel mondo del fumetto italiano?
I.C. Io sono una “fumettista” per caso, e un po' per fortuna, e in realtà conosco poco in profondità ciò che riguarda l’ambiente nella sua totalità attuale. Credo che l’apertura del medium verso questi temi vada di pari passo con l’emersione progressiva degli stessi in altri ambiti. Domanda e offerta stanno l’uno all’altro in rapporto direttamente influenzabile, fatto di sottili equilibri che non possono prescindere dal movimento della storia. Questa compenetrazione dialettica e continua sta alla base dei processi di creazione dell’immaginario collettivo, per modellarne e/o soddisfarne tendenze, innescare o esaudire meccanismi di riconoscimento. In questo senso il fatto che queste narrazioni abbiano potuto essere pensate, scritte, disegnate, e poi nello stesso tempo abbiano potuto essere accolte, è segno che è iniziato un processo che ha permesso che si schiudesse un terreno pronto per mettersi in una posizione di dialogo con queste tematiche, che altrimenti resterebbero relegate alle sole produzioni dei movimenti underground, rimanendo marginali rispetto alle produzioni ufficiali.
Un episodio che mi pare si inscriva in questo meccanismo mediatico che ha coinvolto disegnatori “di ogni genere” è stata la presa di posizione contro lo sgombero di Lucha y Siesta, a Roma. Questo prendere parte della collettività di artisti e fumettisti mi sembra un ulteriore esempio di come questo medium si stia aprendo a questa specifica questione politica.
N.M. Venendo a Lara. Mi sembra che il tema del consenso sia centrale nell’economia della vicenda che racconti. La storia di violenza che coinvolge la tua protagonista si intreccia infatti con quella di un’altra donna che si lascia andare a una violenza consensuale nel corso di un rapporto sadomasochistico. Questa chiara comparazione richiama una controversa questione su cui le teoriche femministe dell’abuso sessuale hanno impiegato, scontrandosi, fiumi d’inchiostro. C’è chi sostiene, in particolare, che il consenso non garantisca, di per sé, l’assenza di abuso. Varie possono essere, infatti, le ragioni per cu un soggetto acconsente ad una pratica sessuale, inclusa la coercizione del desiderio imposta alla donna dalla società patriarcale che la ingabbia in ruoli (anche sessuali) ben definiti. Altre affermano invece come questa prospettiva sia insostenibile perché priva concettualmente la donna di quell’agentività per cui il femminismo si batte. La mia impressione è che il tuo lavoro riesca a sparigliare le carte delle diatribe prodotte sul piano teorico e proponga una visione sfumata capace di allinearsi alla prismaticità del reale. Qual è il tuo pensiero a questo riguardo?
I.C. Il consenso è certamente il nodo del racconto, su cui se ne innesta un altro che è, per me, altrettanto importante per prendere coscienza del proprio modo di agire il desiderio, che è la domanda sul senso dell’aggressività che ognuno, in diversa misura e con diverse modalità di esprimerla, si porta come dimensione connaturata nell’umano. La mia, è una domanda che chiede del luogo psichico dove questo particolare bisogno si origina, prende forma nel pensiero conscio e poi si manifesta nelle azioni delle soggettività. Una sorta di fenomenologia. Il silenzio dell’ultima pagina del racconto è per me il momento della piena comprensione cosciente del significato del consenso: il modo dei due ragazzi di agire il loro desiderio di violenza è riletto e rivissuto ripartendo dall’interrogazione che nasce dal momento in cui anch’essi subiscono la violenza non consensuale che si consuma vicino a loro. Così il consenso viene assunto in modo ancora più consapevole dopo aver esperito empiricamente il corto circuito di queste due violenze (il cui termine è lo stesso, perché la violenza vive della sua essenza propria, ma può avere segni opposti) che si sono trovate fianco a fianco. Penso che se il desiderio, in qualunque modalità si configura, frutto del lavoro di individuazione, viene agito con la massima libertà decisionale, non è in alcun modo suscettibile d’esser giudicato, per nessun motivo, tantomeno per il fatto che non coincide con il nostro e rimane perciò fuori dalla dimensione della nostra comprensione. Altrimenti stiamo ancora e ancora una volta ricadendo nella stessa forma stretta di pensare la libertà e la sua possibilità di esprimerla, decidendo i limiti del lecito e dell’illecito di chi o cosa è accettato o emarginato, su basi ancora arbitrarie, ancora categoriche, e quindi normative, oppressive.
Il consenso è culturale. È un paradigma sociale, un modello educativo che si contrappone a quello dell’abuso di potere in tutte le sue manifestazioni. Con questo non voglio affermare che non possa esserci il rischio di subire un abuso, o di abusare anche laddove c’è un accordo consensuale. La questione non si lascia di certo ridurre così semplicemente. Sono molti i dibattiti e i confronti, anche e soprattutto in quegli ambiti in cui si praticano forme di “sessualità non normata” che per ovvi motivi hanno fatto del consenso una pratica imprescindibile. Nel mondo BDSM, nonostante tutte queste riflessioni sul consenso, su rispetto del limite pattuito e inviolabile, la questione dei rapporti di potere costruiti su rigidi stereotipi sessisti rimane ancora abbastanza radicata, ma anche qui ci tengo a ribadire che non si deve cadere nel rischio di generalizzazioni ingannevoli, ci sono anche linee BDSM queer, e ogni soggettività è a sé, con la sua particolare storia. Credo che limitare le potenzialità d’immaginazione rivoluzionaria del desiderio, nella sessualità così come nell’esistenza, significhi confinarla, azzopparla, controllarla. Piuttosto penso sia più utile sensibilizzarsi e sperimentarsi, portando nella pratica quotidiana i termini del riconoscimento dell’altro, dell’”acconsentirsi” con gioia, del rifiutarsi con rispetto, mettendo al centro del modo sociale l’attenzione e il rispetto per i limiti propri e degli altri. Il consenso è una pratica quotidiana di libertà.
N.M. In un’intervista rilasciata per il festival del fumetto bolognese BilBolBul fai velocemente riferimento alla questione del linguaggio come veicolo di stereotipi e di discriminazione sessista. È per questa ragione che in Lara sembri prediligere la dimensione visuale a quella testuale? Molti sono i panel completamente muti e anche laddove i balloon speech compaiono, il testo al loro interno appare spesso scarno. Eppure anche il visuale è un linguaggio che ha assimilato molti dogmi della simbologia patriarcale. È addirittura un linguaggio che la critica femminista sulla rappresentazione della violenza di genere ha di frequente considerato potenzialmente più pericoloso di quello testuale per via di eventuali derive spettacolarizzanti e perché implica l’esposizione allo sguardo di una corporeità, come quella femminile, già ampiamente violentata a livello visivo. Come hai lavorato sull’elemento grafico-visuale per evitare di proporre un ritratto deteriore dell’esperienza dell’abuso?
I.C. Il mio discorso sul linguaggio era una riflessione di più ampio respiro non esplicitamente diretta alla critica del sessismo che ne è connaturato. Su più ampia scala, affermavo in quel caso i limiti del linguaggio, di fronte alla sua impossibilità di afferrare ed esprimere il senso ultimo di questioni che eccedono la capacità di razionalizzazione umana, come possono essere la morte, la follia, la violenza. Il dialogo scarno, in questa storia, racconta dell’impossibiltà di Lara di dire il suo dolore, l’isolamento che si costruisce attorno all’ abuso. Il peso della violenza colma tutto lo spazio interiore, non lascia spiragli di comunione ma rende impermeabili alla relazione con tutto ciò che sta “fuori”, spesso per vergogna, per paura, per mancanza di sostegno. Il linguaggio spolpato veicola la condizione psichica di Lara. Nell’ultima parte del racconto la dimensione sonora spezza il silenzio. Il suono, come le parole o le immagini, apre varchi nella coscienza. In questo caso il suono che arriva senza il corrispettivo visivo della fonte da cui si origina, si carica dell’interpretazione e dell’immaginazione. Il silenzio, quello dell’ultima tavola del racconto è in questo caso il silenzio della sospensione del giudizio (dei due ragazzi che sentono la violenza e rileggono la loro, in relazione all’altra, e anche la sospensione del mio) e l’impossibilità di formulazione in termini di logos, del caos prerazionale che ci coglie quando la molteplicità prismica del reale rivela la sua eccedenza e fa cedere il senso logico delle cose, così che il linguaggio rivela la sua inesattezza ed arbitrarietà. Da questa premessa, stringendo il focus sul linguaggio come costruzione arbitraria, instabile, e rileggendolo in ottica della critica sessista, risulta chiaro come anche la lingua veicola, instaura, rafforza rapporti di potere, in rapporto organico con tutti gli altri dispositivi. Il lavoro di riflessione sul linguaggio ha una portata fondamentale nel discorso della discriminazione sessista, proprio perché la lingua, le parole, sono di tutti e perciò sono ovunque. È quindi un dispositivo pervasivo, strisciante, talmente naturalizzato che troppo spesso anche quando siamo consapevoli del potere discriminante di alcune parole o affermazioni, ci accorgiamo di quanto queste abbiano radici molto profonde difficili da disinnescare. Il processo richiede una grande dose di attenzione, sensibilizzazione e riflessione. Occorre destrutturare e ristrutturale “il modo” del linguaggio così da estirpare le formule sessiste di cui è portatore e fare opera di riappropriazione e risignificazione delle parole, in modo che si possano ridefinire le relazioni tra potere, desiderio e soggettività.
Venendo alle immagini, la questione è analoga. Per la loro potenza di risonanza inconscia, le immagini sono un mezzo potente ed incontrollabile, e per questo potenzialmente pericoloso per i significati di cui si caricano. Credo che la spettacolarizzazione della violenza sessista sia deleteria per varie ragioni. Prima di tutte, l’esposizione del corpo, sul piano delle immagini, come unico centro di speculazione della critica sessista, non garantisce la percezione completa della totalità del sistema complesso, e di tutte le altre direzioni, in cui si propagano le discriminazioni. Il corpo è il terreno a prima vista più evidente, ma fermando l’attenzione solo su questo si rischia di rimanere invischiati dentro una visione frammentaria, e anche direi, reazionaria, dal momento che si assumono, come nodo del discorso, ancora una volta categorie stereotipate relativamente alla disparità della forza fisica. Il nostro immaginario è già segnato dal corpo femminile reificato, oggettivato, messo in vetrine d’esposizione. Teatralizzare il corpo abusato, fermarlo in immagine nel momento della violenza, fa mostra dell’”inferiorità fisica” del corpo femminile che inevitabilmente carica di significato la “differenza”, la “disparità”, e delinea come unità di misura collettiva la superiorità o l’inferiorità di un soggetto, relativamente alla sua forza, relativamente al suo corpo biologico. Così ci si lega a doppio filo ad una narrazione che ascrive le donne a soggetto da proteggere, con la logica infida e strisciante della salvaguardia del soggetto debole come gentile concessione ed espressione di magnanimità da parte del soggetto forte che si incarica di prendersene cura, perché è buono. E cosi, di nuovo la gerarchia è intatta. Di Lara e della sua violenza ho mostrato esplicitamente solo un gesto, che si ripete, e che comunque mostra l’atto violento. Un gesto che se nella prima immagine può sembrare rimandare anch’essa ad una scena erotica, subito dopo si svela inequivocabilmente per quello che è. Per cui la violenza in realtà è rappresentata in modo netto, quando parliamo di immagini. Nella narrazione invece, probabilmente si può provare ad intuire, a prevedere, ma si rende manifesta solamente alla fine. Svelare il mistero della vita di Lara all’inizio del racconto avrebbe significato esporla allo sguardo compassionevole del lettore, cucendole addosso irrimediabilmente il vestito della “vittima”. Anche quando, nella parte finale, le immagini sono esplicite e non lasciano scampo, non ho voluto seguire l’atto della violenza in tutta la sua durata, anche perché la violenza la conosciamo, ne siamo immersi su tutti i fronti, e non è necessario rimpinzare questo panorama già esausto a cui l’abitudine ci ha assuefatti e che suona troppo spesso retorico e vuoto, oltre che nocivo.
N.M. Su una recensione pubblicata su Lo spazio bianco, Cristiano Fighera ravvisa nella tua opera la propensione a disegnare volutamente male che caratterizza, a partire da Gipi, buona parte del fumetto italiano prodotto negli ultimi anni. Come credi che questa scelta stilistica possa agevolare le esigenze espressive di chi, come te, ha scelto di raccontare lo squilibrio di genere e la violenza che ne consegue?
I.C. Credo che ci sia, in tutto ciò che mantiene il sapore dell’immediato, in quello che definirei una grande “precisione dell’imprecisione”, una sorta di empatia comunicativa più diretta, più immediata appunto, proprio in virtù della verità che resta della tensione del gesto, un tremito che trattiene nel segno qualcosa della sincerità di quello che si è e si sente durante l’atto di creazione. Così come la nota precisa, il segno, che è ritmo, vibra e suona. Ho una profonda ammirazione per quegli autori che riescono a “disegnare male” veramente! Il mio lavoro è stato piuttosto una ricerca del segno per fargli raccontare, in modo più autentico possibile, quello vibrava nell’intenzione.
Proprio per la sua immediatezza comunicativa mi era funzionale usare questo tipo di linea poco controllata, libera di tremare e di uscire dai confini, senza raccontare il non necessario, ma solo quello che sentivo di viscerale. Si prestava per mantenere l’attenzione tutta concentrata sulla narrazione.
N.M. Il minimalismo cromatico (Lara è un fumetto in bianco e nero, se si esclude la copertina rosso-verde) è un altro elemento stilistico di rilievo, soprattutto se rapportato al tema della violenza di genere. Uno dei principali intenti e, insieme, rischi del discorso femminista sull’abuso sessista è infatti quello relativo all’accentuazione delle differenze e delle opposizioni. Se da una parte tutte riconosciamo la necessità di stabilire una distinzione tra le figure di vittima (generalmente donna) e carnefice (generalmente uomo), dall’altra dobbiamo prendere atto che insistere acriticamente su questo binarismo può portarci a confermare l’idea patriarcale di donna oggetto passivo e uomo soggetto attivo. Il bianco e nero che ruolo ha in questo discorso?
I.C. Il bianco nero è funzionale per due motivi. Il primo, come accennavo sopra, è in rapporto organico con la pulizia strutturale del racconto. Come il parlato essenziale e spolpato che viene da un lavoro per sottrazione, anche la scelta del bianconero essenziale, dominato dal bianco che rimane accecante, e punteggiato di nero che fa da contrappunto, è un modo per mantenere l’attenzione sul nocciolo della narrazione il più possibile. Mi è stato chiaro fin da subito che il disegno sarebbe dovuto andare in questa direzione. Quindi è stata da un lato una necessità di togliere ogni elemento di disturbo non essenziale ai fini dell’impatto del contenuto, facendo emergere invece il ritmo, il suono, le parole, che altrimenti avrebbero perso di efficacia sotto la forza dei colori. Dall’altro, mi consentiva di operare su un terreno di neutralità, dal momento che il colore come il segno è carico di significati. In questo caso l’aggiunta del colore avrebbe espresso già di per sé una presa di posizione. Per la sua componente caratterizzante, i colori mi avrebbero vincolata inevitabilmente a suggerire atmosfere o a delineare caratteri e tratti, sia emotivi che fisici, implicando la mia partecipazione in termini di giudizio. L’astensione dal colore mi ha permesso di lasciare che si creasse un terreno imparziale, non soltanto per la presa di distanza che mi consente di non attribuire caratterizzazioni retoriche della dicotomia vittima-carnefice/ donna-uomo, ma anche nel lasciare che l’incontro tra tutte queste diverse soggettività che agiscono e subiscono la violenza ognuno assecondando le loro contingenze specifiche, si potessero contaminare fra loro, penetrando l’una nell’altra per farle scontrare con una forza ulteriore, che si sarebbe persa se, a priori, le avessi distinte attraverso i toni.
N.M. Lara è un fumetto in cui la dialettica dentro-fuori la fa da padrona. L’onnipresenza degli elementi architettonici segna questa divisione tra interno ed esterno che, a ben guardare, rispecchia poi la tensione tra introversione ed espressione, tra comunicabilità e incomunicabilità. Ho molto apprezzato lo sforzo del disegno di insistere, tuttavia, sugli elementi interstiziali (balconi, finestre, campanelli, scale), quasi a voler significare una volontà di superamento della divisione dentro-fuori che pur andava raccontata. È forse superfluo sottolineare il valore politico di questa operazione e il nesso che lega la dialettica interno-esterno e quella silenzio-parola alla lotta femminista alla violenza domestica. Corrispondiamo per questa intervista in tempi in cui la retorica dello “stare a casa”, dell’isolamento e del distanziamento sociale imposte dal rischio del contagio stanno portando all’irrigidimento dei confini tra dentro e fuori. Quali sono i tuoi pensieri in questi giorni così difficili per tutte noi ma, soprattutto, per tutte le donne che devono alla porosità tra esterno e interno la loro capacità di sopravvivere?
I.C. Nel racconto l’apertura e l’accoglienza, il soccorso che si possono incontrare nello spazio “fuori”, non si compiono mai. Come dicevo, frequentemente quando si subiscono abusi nella dimensione domestica, che per definizione è quella protetta, intima, la dimensione del riposo e delle relazioni più strette, lo spazio fisico esterno si ripiega e si chiude su sé stesso, tanto quanto lo spazio psichico. Il problema dell’incomunicabilità è un fatto di solitudine e isolamento. I muri della casa, che si stringono intorno a chi subisce violenza domestica e rimangono nella forma di barriere ovunque il corpo si sposti si abbattono nel momento in cui il soggetto trova uno spazio relazionale pronto a comprenderlo, ad accoglierlo senza stigmatizzarlo. Uno “spazio relazionale” che sia una rete fatta di informazione, di strutture d’accoglienza, di supporto emotivo. Una rete collettiva di solidarietà e di lotta allo stesso tempo che è responsabilità di ognuno creare.
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